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HABE DANK, KONRAD

MOSTRA PERSONALE DI KONRAD KLAPHECK


21 settembre 2023

Nel ritmo di una musica interiore

Ci disse una volta che il dolore era la prima esperienza che ricordava.
Aveva quattro anni quando morì il padre, all’improvviso, per un attacco di cuore. Aprendo l’anta dell’armadio in totale solitudine, con religioso rispetto quasi schiudesse il passaggio che portava in un mondo migliore, lo cercava nell’odore delle giacche appese, tragicamente immobili, prive di vita: simulacro e àncora di salvezza, presenza permanente e vuoto eterno. Verità immutabile e immaginazione, che tutto può.
Questa è la prima lezione dei suoi anni di formazione, quella che resterà indelebile fino a connaturare l’indole stessa di Konrad: i ricordi, figli spesso amari della realtà, leggermente deformati, sono quanto resta delle realtà perdute che possiamo tenere accanto solo attraverso i sogni, le visioni e, soprattutto, il percorso incontrollato del subconscio, cioè la mente che non dimentica niente, che accumula tutto nel grande magazzino capace di vibrare come il battito del cuore.
Era il 1939, la Germania era già in guerra da un anno. La madre, figlia di un famoso neuropsichiatra di Lipsia, sceglie di lasciare Düsseldorf e raggiunge la famiglia d’origine. Cominciano per Konrad anni di felice stordimento, di incontri straordinari e indimenticabili, tra generali russi che corteggiano la mamma e soldati semplici che si ubriacano allegramente con le ragazze. Non aveva mai visto niente di simile nella sua prima infanzia in Renania: il mondo che andava scoprendo era a colori, fantasioso come un giro sulla giostra, inatteso come un dono che non aveva neppure desiderato.
Il ritorno a Düsseldorf, alla fine della guerra, è per Konrad desolante e magico nello stesso momento. Lasciato a se stesso dalla madre che inizia a insegnare storia dell’arte, subentrando presso l’Accademia nella cattedra che era stata del marito, vaga per la città affascinato e atterrito dalla vista dei quartieri bombardati, percorrendo con la piccola bicicletta le strade che un tempo erano state adorne di splendidi viali, vetrine luminose, imponenti costruzioni. Ora è tutto polvere e calcinacci, i palazzi sventrati lasciano intravedere momenti di quotidiano di chi non c’è più, i marciapiedi sono scomparsi. I bambini nei parchi non sanno più giocare, tirano sera nelle giacchette che non li riscaldano, incapaci di spensieratezza, veloci a stringere amicizie fortissime che durano lo spazio di un pomeriggio, il tempo di una corsa insieme in bicicletta, perché mancano i riferimenti nella città distrutta e sanno che domani sarà difficile incontrarsi ancora.
Il giovane Konrad impara così la seconda lezione, girando da solo per le strade con un album degli schizzi nel tascapane: le rovine trattengono la vita precedente e il disegno può fissare per sempre il momento della morte, che è ancora una forma della vita, imprimendo sul foglio la traccia di un canto di pietà, di tenerezza, peana d’amore alla fine della guerra. La matita consente la riconciliazione con ciò che non è più, restituisce l’innocenza della vita perduta; regala la riappropriazione di tutto quello che sembrava finito, ma è solo trasformato. Il disegno insegna a Konrad a plasmare la materia fino a farla coincidere con la visione interiore delle cose, innanzitutto la città percepita nella prima infanzia, prima della morte del padre, quando il mondo sembrava un meccanismo perfetto. Poi gli oggetti, fissati nelle prime ingenue nature morte, infine i volti tratteggiati a memoria. Un giorno ci ha confidato che solo una volta aveva voluto rappresentare il padre, finalmente, e ci aveva mostrato il dipinto, che appartiene al primo ‘ciclo’, “Villa Klapheck”: un uomo in canottiera, piuttosto dimesso si affaccia alla finestra di un edificio che Konrad aveva definito ‘istituto termale’. Il figlio dopo cinquant’anni aveva vinto il lutto, e il dio perduto della sua infanzia era diventato semplicemente un uomo.
Gli anni dell’adolescenza sono ricchi di incontri e di letture, soprattutto nel microcosmo chiuso del salotto di casa dove la mamma accoglie colleghi, artisti e intellettuali per discutere della nuova società e dell’arte che tentava di interpretarla. Il ragazzo è accolto nella piccola cerchia e corrisponde con entusiasmo, desideroso di imparare tutto, scoprire nuove idee, prendere lezioni di pittura. È serio e motivato come un piccolo adulto.
La madre lo affida al maestro Bruno Goller, un collega dell’Accademia che in un primo momento si limita a mostrargli i capolavori dei grandi artisti del passato. Konrad è smanioso di cominciare a dipingere e trova piuttosto noiosi gli incontri con quel signore grigio e triste: capirà più tardi che sono state proprio le minuziose osservazioni dei capolavori del passato a donargli la visione preliminare della composizione, la chiarezza del tratto, l’equilibrio delle forme che lo compongono, la fine sensibilità per il colore, il fortissimo senso di autocritica che lo spinge a perfezionare sempre di più la tecnica e il mezzo espressivo.
Konrad frequenta il liceo con entusiasmo e ottiene ottimi voti in tutte le materie, perché è – e lo sarà sempre - competitivo, mosso da una certa ambizione di emergere senza prevaricare, di apprendere senza che la sicurezza prevalga sulla curiosità.
Quando chiede al professore di lettere se è meglio che si dedichi alla pittura o alla scrittura, questi gli risponde che potrebbe avere successo in entrambi i campi, ma lo vede soprattutto come romanziere. E anche se Konrad, lusingato, non dimenticherà mai questo incoraggiamento, sente maggiore propensione per la pittura, forse perché è un linguaggio più sintetico e allusivo, e poi gli consente di camminare nel solco tracciato dai genitori, gli permette di muoversi in un mondo che hanno studiato e amato, che hanno raccontato agli studenti con la capacità di infiammarli di entusiasmo.
Un pensiero mi attraversa improvviso la mente, mentre scrivo queste note. Nel gennaio del 2018, mentre trascorrevamo insieme – Konrad e Wanda, Antonio ed io - una breve vacanza termale a Montegrotto (l’ultima!), nel grande atrio del nostro solito albergo, vedendo quanto gli tremava la mano destra per il Parkinson che lo aveva colpito, gli ho chiesto come avrebbe fatto per la pittura, gli ho chiesto se fosse avvilito, preoccupato. E lui mi ha sorriso in modo indimenticabile e poi ha riso con i suoi occhi che sapevano tornare bambini, e mi ha ricordato l’aneddoto del suo professore del liceo: “Se non potrò dipingere, scriverò! È venuto il momento di ascoltare il suo suggerimento!”. Mi avevano commosso la sua incrollabile fede nelle sue possibilità, l’energia positiva, uno dei tratti caratteristici più affascinanti della sua personalità, il desiderio di fermare ancora, seppur con altro mezzo espressivo, il ricchissimo mondo interiore che si portava addosso, dentro le tasche sformate insieme al quaderno degli schizzi, la macchina fotografica, l’agenda dei numeri di telefono, il portafoglio più consumato che io abbia mai visto. Era carico di entusiasmo, nonostante i suoi ottantatré anni aveva lo spirito del ragazzo con gli occhi carichi di futuro; era pronto per iniziare una nuova avventura, ma la malattia ha vinto l’ultima partita che Konrad ha dovuto affrontare e i suoi romanzi, disseminati nelle sue pitture, sono rimasti nella sua testa, intatti e perfetti come anno dopo anno era andato componendo.
All’Accademia sceglie di frequentare le lezioni del professor Goller, che lo aveva conosciuto come un ragazzino assetato di arte. È Goller, che ben conosce Konrad e la sua straordinaria capacità sintetica, che dopo qualche tempo gli suggerisce di dedicarsi agli oggetti, che consentono di rappresentare in un’icona enigmatica i sentimenti più personali e segreti, senza svelare volti e nomi delle persone che hanno popolato la sofferenza sottesa ai suoi anni di crescita. Gli oggetti prescelti obbediscono alle leggi della fisica più elementare e affascinano l’artista perché, a differenza di quanto accade nella vita, obbediscono a un meccanismo dove tutto ‘funziona’ (è del 1955, Konrad ha vent’anni, la prima Macchina da scrivere). La mano che ne indaga la natura interviene sulla relazione della macchina-creatura con il mondo intorno, evidenziando di volta in volta la potenza, l’arroganza, la capacità seduttiva, la paura, tutte le sfumature dell’avventura umana che il coltissimo Konrad ha percorso anche attraverso innumerevoli letture.
I vent’anni sono il tempo meraviglioso della vita ‘fuori’, delle esperienze che tracceranno per sempre i binari all’interno dei quali Konrad si muoverà con sicurezza, senza discostarsi mai dalle prime passioni: gli incontri di box – è conquistato soprattutto da Sugar Ray Robinson -, dove si scopre tenace e competitivo, e le lezioni di ballo moderno nelle sale fiorite negli anni ‘50 lungo il Reno, occasioni che gli consentono di avvicinarsi al misterioso mondo femminile (è qui che incontra Lilo, la vivace ragazza che diventerà sua moglie). Educato secondo i canoni di una famiglia protestante, conosce finalmente la libertà e l’ebbrezza della trasgressione. Parigi, dove la madre lo incoraggia a soggiornare per imparare il francese e frequentare gli intellettuali e gli artisti, gli sembra irresistibile: lo incanta la vita della capitale dove entra in contatto con André Bréton, Max Ernst, Yves Tanguy.
Qui fa in tempo a divertirsi con loro con il gioco dei Cadaveri Eccellenti, mezzo creato dai Surrealisti per indagare come attraverso automatismi potessero affiorare il subconscio collettivo e il caos generato dal silenzio della ragione, e questa esperienza risulta fondamentale, come testimoniano soprattutto le opere su carta, che Konrad definisce ‘Disegni surrealisti’. Perché Klapheck si è sempre sentito uno degli ultimi eredi dei Surrealisti, eppure la sua opera è stata potentemente innovativa ed è andata molto più in là di quello che l’artista avrebbe potuto immaginare.
Sentimentalismo ed eros, nostalgie e disincanto, curiosità e rielaborazione dei grandi del passato e del suo tempo: tutto confluisce nella prima mostra personale del 1959 presso la galleria Schmela della sua città che con lui è generosa, indicandolo come la vera nuova voce del dopoguerra.
Ma nel 1960 l’invito della Staempfli Gallery a partecipare con un’opera alla mostra collettiva di New York “Paris Obsession”, in cui sono presenti tra gli altri Lucio Fontana e Yves Klein, testimonia come la sua voce sia ormai di portata internazionale. Ordine e caos, volontà e casualità, perché tutta la vita è costruita su questa dinamica: il gallerista italiano Leo Castelli, che sta collaborando con alcuni pittori che si esprimono con un linguaggio innovativo, visita la mostra e viene colpito dalle opere di Klapheck perché riconosce nel suo lavoro gli stessi elementi, lo stesso spirito che sta nascendo negli artisti destinati a diventare i principali interpreti della Pop Art. Pertanto, appena può vola a Düsseldorf, si reca da Klapheck e acquista sei opere. E tutti questi eventi fanno pensare che in un futuro neanche troppo lontano Klapheck sarà considerato un artista pop, anzi - se si guardano le date – perfino un precursore della Pop Art.
Ma forse Konrad non è neppure in grado di capire in quel momento la portata di tale consacrazione, è solo felice del fatto che il viaggio a New York gli abbia permesso di ascoltare finalmente dal vivo i musicisti jazz che aveva amato fin da subito, conoscendoli solo attraverso i vinili acquistati con i faticosi risparmi: Benny Goodman e Mary Lou Williams. Peccato che il favoloso Charlie Christian e la leggendaria Billie Holiday fossero già morti, Billie solo l’anno prima della mostra a New York. Tutta la vita di Konrad non sarà altro che la scelta di narrare i momenti di una introspezione coraggiosa, aggiungendo anno dopo anno capitoli che raccontano il suo mondo, respirando nel ritmo di una musica interiore che possiede il dinamismo e la malinconia di un concerto jazz.
Immagina di sentire un brano che puoi accompagnare con il battito di un piede, mentre guardi un quadro di Klapheck; immagina che all’improvviso un clarinetto o un pianoforte faccia il suo ingresso inatteso mentre ti stavi perdendo nel gioco di un altro strumento: le opere di Klapheck sono così, con una parte principale, a cui è affidato il ruolo di protagonista, e una o più parti secondarie ma fondamentali per la completezza della composizione. Può essere un guizzo di colore, una forma sorella del virtuosismo, un dettaglio che chiama lo sguardo in modo imperativo: tutto è stato concepito, progettato, disegnato e infine dipinto nel ritmo di una musica interiore che sa conciliare l’osservazione del mondo reale con il recupero di una realtà ideale, che sa “far suonare insieme” il ricordo, il sogno, un moto inconscio, la rinuncia e il desiderio, l’obbedienza e la ribellione, “la cifra e il caso”1, alla ricerca di un equilibrio perfetto conquistato attraverso la rigida pratica del disegno alla maniera rinascimentale, perché solo le linee che costruiscono la macchina antropomorfa sono garanzia di stabilità e armonia.
Tanto hanno scritto sulle Macchine di Klapheck e talvolta ha scritto lui stesso, svelando come ogni scelta, ogni ‘tipologia’ corrispondesse a un criterio denotativo determinato e certo: mogli imploranti e madri assertive rappresentate dalle macchine da cucire, uomini di potere racchiusi dentro meccanismi perfetti eppure inquietanti, macchine da scrivere che alludono a un padre perduto che rimanda a un tempo in cui l’uomo camminava lungo il Reno con il bambino per mano, bambini che attraversano il parco nella città bombardata concentrati nella poesia di un campanello di bicicletta.
Le Macchine consentono a Klapheck di raccontare frammenti di inconscio, di far emergere il complesso magma interiore senza dare un volto al sentimento che smuove le emozioni, consentono di trasformare in icona un’esperienza, un incontro, un comportamento che irrompe nel quotidiano determinando un’urgenza espressiva che solo chi vive battendo il piede a ritmo del jazz può cogliere nelle pieghe della vita. E che sia stato un grande romanziere che ha scritto attraverso le immagini è testimoniato dalla raffinatezza dei titoli, che si divertiva a tradurre personalmente in inglese, italiano e francese: tra riferimenti dotti e sottili allusioni, flirta con la grande letteratura e il cinema, ruba all’attualità, compie incursioni nella storia europea, osa giudizi ben riposti nelle categorie morali di sapore kantiano.
Più di vent’anni fa, scrivendo ad Antonio una lettera che accompagnava le opere che sarebbero state esposte nella mostra imminente, la prima che la duetart Gallery gli dedicava, Konrad ha definito le sue tele “lacrime e sangue”: specchio di sofferenza unita a una eccezionale energia reattiva, i quadri tracciano il percorso di una vita per immagini in cui non c’è demarcazione tra passato e presente e tutto ‘cammina insieme’, perché – e per un artista vale più che per chiunque altro – siamo contemporaneamente ‘tutto’ – nelle stesso momento già padri e ancora figli – e tutto quello che abbiamo vissuto è dentro di noi contemporaneamente.
L’allestimento delle opere esposte in questa mostra ‘in memoriam’ dimostra quanto profondamente Antonio conoscesse Konrad: solo un amico poteva cogliere la necessità rispettosa di far parlare i lavori in armonia con la natura dell’artista. Il visitatore si ritrova letteralmente circondato da una ampia serie di Disegni surrealisti che svelano sogni, bisogni, incubi e desideri, visioni e ricordi. Ogni opera dialoga con le altre, in un continuum che tanto assomiglia alla vita di Konrad, ed è drammatico vedere tutto oggi, due mesi dopo la sua morte. Sembra di muoversi in una ragnatela in cui sottili fili legano i diversi sogni, le diverse aperture all’altro di un inconscio complesso, articolato, a tratti misterioso come la notte, a tratti pulito e ingenuo. E i fili sapientemente tesi creano un tessuto, perché nell’artista tutto ‘è’ contemporaneamente, e non esiste passato se l’esperienza di tanti anni prima torna come vivido ricordo che domina gli occhi finché non diviene forma disegnata, liberata, autonoma e capace di emanciparsi dal suo autore. Non sono troppe le opere, come qualcuno ha osservato, come non sono troppi i pensieri che uno può avere in testa. Ci sono o non ci sono, e nel caso di Klapheck è chiaro che c’è stato un affollamento di pensieri, che l’arte gli ha consentito di sfoltire, alleggerendo l’inconscio assalito da troppe visioni. E questo Antonio l’ha capito, perché era davvero un caro amico e lo conosceva bene. La mostra, pensata così, ha voluto rendere onore alla ricchezza di immagini che hanno continuato a vivere nella testa di Konrad, mentre lui viveva. Chiari e scuri, incubi della notte e affanni del giorno, mostri della mente e rimorsi del cuore. Tutto, sempre, contemporaneamente.
Intorno ai sessant’anni, dopo essere stato in coma in seguito a una caduta, si risveglia con la necessità irrefrenabile di raccontare finalmente anche i volti che lo hanno accompagnato nel suo cammino percorso sempre nel discrimine tra immaginazione e realtà, tra voyeurismo ed esperienza concreta. Era tanto tempo che con Wanda, la compagna che lui chiamava ‘il mio critico migliore’, preparava questo momento, frequentando presso l’Académie de la Grande Chaumière di Parigi le sedute di copia dal vero di uomini e donne, giovani e vecchi che posano nudi. Disteso nel letto di ospedale, mentre durante la riabilitazione immagina il suo futuro, decide di realizzare quarantotto tele, e non gli importa se il suo pubblico innamorato delle Macchine sarà stupito, non gli importa se il suo lavoro non sarà capito. Quarantotto tele organizzate per cicli, volumi e capitoli, secondo la lezione dei Naturalisti francesi. Momenti di un grande affresco narrativo che dipingerà in ordine di urgenza, perché dopo l’esperienza del coma Konrad non sa quanto tempo avrà a disposizione e ‘lo scrittore che dipinge’ sa che ogni tela richiede tempo e implica fatica. Nascono così le serie “Villa Klapheck”, che tratteggia i momenti irrinunciabili della sua formazione umana e artistica, “Swing, brother, swing” (dal titolo della canzone di Billie Holiday, del 1939), che dichiara liricamente la grande passione per il jazz come colonna sonora della sua vita e infine “Dietro il sipario”, che svela l’occhio voyeuristico che ha guidato l’artista nei momenti in cui l’immaginazione è stata più viva della vita: ‘cicli’ con cui Konrad accompagna lo spettatore nel suo mondo fantastico eppure estremamente realistico, sotto il palco di un incontro di box o nella luce intrigante di un concerto jazz, nei segreti di una casa per appuntamenti o nel salotto di una giornata in famiglia, su una pista da ballo o nella stanza di un giovane soldato russo: tutto è tornato, pronto a prendere vita nel grande romanzo di Klapheck, che a poco più di vent’anni, incoraggiato dalla sua insegnante, aveva scritto in francese una autobiografia giovanile, raccontando i sogni e i desideri segreti come avviene in un percorso psicanalitico. Non è mai stata pubblicata, perché Konrad ha preferito aderire al desiderio dei figli, ma non c’era niente da temere in queste pagine, perché anche nella fantasia più audace non ha mai perso la totale innocenza del bambino che ancora si incanta di fronte a qualche cosa che non conosceva: sono frammenti di inconscio, Cadaveri Eccellenti tratti da una miriade di immagini tutte contemporaneamente accese nella mente, sia che si tratti di un lontano ricordo dell’infanzia, sia che si tratti di un maligno desiderio prontamente frenato.
E mi piace pensare che di fronte a una materia così vasta, ricca e intrisa di dramma come fu la sua vita, Konrad si sia immaginato nei panni del grande direttore d’orchestra Count Basie, che tanto amava, capace di dirigere i personaggi di Villa Klapheck o del ring, di risvegliare le Macchine nel momento giusto, ora prestando ascolto a un sogno, ora dando voce a una lontana visione, ora concedendo a un sentimento a lungo soffocato di entrare nella band, per cantare la sua musica. “Swing, brother, swing”, e si è divertito a concepire il tema battendo il piede come il mitico bandleader, riversando nel suo lavoro tutto se stesso, raccontando nelle tele molto di più di quello che avrebbe voluto dire. La musica interiore veniva da lontano, eppure Konrad ha saputo costantemente vivificarla, regalando nuovi capitoli che arricchiscono la trama, facendo intuire, procedendo per cerchi concentrici sempre più ampi, momenti della sua storia personale che le prime opere non avevano svelato.
Sempre l’immaginazione ha vinto sulla realtà: penso a come Konrad ha ideato il disegno del ritratto di Antonio. Era forse il 2000, era inverno. Era ospite a casa nostra, si è fermato alcuni giorni. Verso sera sono tornati in treno da Milano, hanno parlato piacevolmente per tutto il viaggio. Antonio per il freddo era stretto nel cappotto nero. La mattina al risveglio ha detto ad Antonio che voleva fargli un ritratto, e lo pregava di mettersi il cappotto che aveva usato durante il viaggio: voleva che il cappotto fosse tutto abbottonato, perché ‘fuori’ era freddo ma ‘dentro’ si doveva capire che c’era un bel caldo, perché Antonio ai suoi occhi era così. Lo ha pregato di prendere un libro e di tenerlo tra le mani, come se volesse leggerlo, perché voleva evidenziare che il suo gallerista italiano, che anno dopo anno stava diventando un amico fraterno, era un intellettuale. Ecco, è andata così: mentre accadeva la vita, lui aveva ‘visto’ l’opera.
Abbiamo trascorso centinaia di ore insieme, nelle più belle città italiane per rivedere insieme le opere di Raffaello o Piero, a Parigi, a Düsseldorf ospiti nella sua casa in Mozartstrasse o nella casa delle vacanze in Olanda. Centinaia di ore uniti nel nostro quartetto che tanto ci ha arricchiti tutti, tra discorsi sull’arte e racconti della vita, contemplazione della bellezza e momenti leggeri. Konrad sempre interessato a sapere che cosa Antonio pensasse di una mostra, di un pittore, curioso del suo punto di vista, della sua intuizione. Diversi per formazione, Konrad aveva un approccio analitico, che teneva conto di secoli di storia dell’arte, mentre Antonio all’istante sapeva capire di un quadro l’essenza, e gliela donava con la spontaneità rispettosa del fratello minore. E Konrad gli è sempre stato grato di questo, perché Antonio sapeva cogliere ciò che lui stesso faticava a vedere, perché condizionato da troppe conoscenze stratificate nel tempo. Ed è sempre stato desideroso di mostrare all’amico i suoi quadri nuovi: quando eravamo a Düsseldorf, dopo una mostra al Kunstpalast o al K21, dopo un piatto di cucina italiana presso la sua adorata trattoria Palmieri, dopo un breve riposo chiedeva ansioso ad Antonio: “Hai ancora appetito di arte?”, perché non vedeva l’ora di andare in studio, sedere nella poltrona sfondata e attendere che Antonio leggesse la nuova tela con la sua innata sensibilità. E si restava lì, nello studio con le finestre immense, nella luce naturale, fino a quando noi stessi non eravamo più che ombre incerte nel crepuscolo imminente, fino a quando non capivamo che i suoi personaggi – il ciccione nero che balla, con passo così leggero che sembra un volo, rimasto a lungo appeso alla parete, Mary Lou Williams, con il suo vestito giallo oro a pois violetti e il sorriso intrigante, Telonius Monk che galoppa con un buffo copricapo sulla tastiera del pianoforte - erano molto più vivi di noi, alla ricerca di certezze dove l’arte offre possibilità, bisognosi di stimoli per reagire di fronte a personaggi che avevano dato tutto per sfondare e riscattare la loro pelle nera, noi destinati a morire mentre loro sarebbero stati vivi – e giovani – per sempre.
Mi invade il ricordo del risveglio a casa di Konrad. Come prima cosa sentivo le note del clarinetto di Benny Goodman, forse il preferito degli ultimi anni, che arrivava dalla camera mentre Konrad si preparava. Intanto si preparava anche Antonio. Io restavo lì, perché sapevo che quella prima ora del giorno era preziosa per le loro parole senza di me. Poi la musica taceva e sentivo le sue scarpe sui gradini della scala a chiocciola, il passo veloce come quello di un ragazzo, come se Konrad fosse sempre in gara con se stesso per dimostrare che, anche se passavano gli anni, lui impiegava sempre lo stesso tempo per percorrere la distanza necessaria per arrivare in cucina. Preparava sul tavolo il latte e il mussli, il pane il burro e la marmellata di ciliegie. Preparava tè e caffè. Un pompelmo rosa tagliato abilmente nella scorza da dividere nelle nostre tre fondine. A quel punto compariva Antonio, e io li sentivo parlare e parlare, di personaggi galleristi artisti, di mostre e valutazioni, critica, analisi e sintesi di un quadro visto il giorno prima. A un certo punto arrivavo, ma cercavo di scomparire, stavo zitta perché sapevo che era meglio così, per non rompere l’equilibrio di quel risveglio perfetto. Voglio pensarlo così, che sente il clarinetto di Benny mentre si rade e prepara la colazione per tutti. Voglio pensarlo mentre corre scendendo i gradini, conservando nei piedi il ritmo della musica che si cantava ancora in testa, nel silenzio della casa. Pronto per ‘la solita giornata’, organizzata in modo quasi maniacale, eppure aperto alle sorprese della vita. Abitudinario e impulsivo, metodico e nello stesso tempo passionale, in equilibrio tra una certa durezza protestante dell’uomo e la sfrenata libertà dell’artista.
Sentiremo sempre la sua mancanza, ma guarderemo i suoi sogni e le sue visioni e non la sentiremo mai.

Isabella Colonna Preti

vedi opere:
Habe dank, Konrad

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